Nel primo numero del 2016 abbiamo incontrato il direttore del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea di Ca’ Foscari prof. Paolo Calvetti e il prof. Attilio Andreini docente di cinese e referente per la ricerca a Ca’ Foscari. Con il prof. Andreini ci eravamo già incontrati, in occasione di un corso FSE in cultura cinese per gli imprenditori che si apprestavano ad aprire un’attività in Cina. Oggi, con questa intervista, affrontiamo l’interessante rapporto nel business e nei bandi europei tra università e impresa.
Gentile prof. Paolo Calvetti ci può presentare l’attività del suo team?
I nostri docenti hanno competenze sull’Asia e l’Africa mediterranea che sono principalmente culturali e linguistico – letterarie, ma da anni gli studi areali si sono aperti anche a gli studi sul diritto e l’economia dei paesi di interesse, con un’offerta didattica che va oltre quelle tradizionali dei cosiddetti “studi orientali”. Lo studio delle lingue va dall’arabo al cinese, dal persiano all’hindi, dal turco al tibetano, dall’ebraico al giapponese, dall’armeno al coreano, dall’urdu allo yiddish, dal sanscrito al georgiano per un totale di circa 20 lingue e culture. Le ricerche in materia giuridico – istituzionale riguardano lo studio dei sistemi giuridici degli istituti economici e commerciali dei paesi asiatici e dei paesi islamici, fino a toccare anche problematiche connesse con il diritto commerciale internazionale. Ora c’è anche il corso magistrale interdipartimentale con il Dipartimento di Economia quello di Management del nostro ateneo. Sono quattro in sintesi i filoni di studio in cui sono coinvolti i nostri docenti: 1. Studi linguistici, filologici e letterari 2. Religioni e filosofie; 3. Archeologia e conservazione dei beni culturali arti figurative e performative; 4. Storia, istituzioni, economia, società, politica e relazioni internazionali I nostri docenti formano persone in grado di destreggiarsi con assoluta disinvoltura tra le culture asiatiche, del medio oriente e dell’Africa mediterranea sapendo così interpretare e rispondere ai bisogni delle nuove economie. Il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (DSAAM) è un unicum a livello nazionale. Ci sono studenti provenienti da tutto il territorio nazionale e di recente registriamo la presenza di studenti stranieri.
Anche se non misurabile, perché non evidenziabile concretamente, ma che valore aggiunto ha la mediazione linguistica nell’ambito del business di un’azienda?
La Globalizzazione e la mediazione in lingua inglese ha creato un’apparente facilità dei rapporti, senza considerare però che un partner che proviene da paesi dell’Asia in una contrattazione commerciale o politica, anche se parla in inglese, tuttavia pensa, e di conseguenza agisce, sempre sulla base logica della propria cultura. Così accade spesso che aziende italiane vadano allo sbaraglio in questi paesi emergenti con prodotti molto validi, ma che non riescono a vendere, e non ne capiscano la ragione. Potrei raccontare, a livello aneddotico, più di una esperienza personalmente vissuta, di incomprensioni tra interlocutori italiani e giapponesi durante trattative diplomatiche in cui la parte italiana era convinta di aver avuto successo avendo “stappato un sì” alle proprie richieste. In verità, come molti sanno, per strategie linguistiche di cortesia un “sì” può valere in Giappone, come in altre culture dell’Asia, come un gentile modo per rispondere dino. E tali sfumature si perdono se “tradotte alla lettera” e non interpretate invece attraverso la lente della cultura del pensiero giapponese. Questo nell’ambito delle istituzioni e della politica. Ma le porto anche un’altra esperienza in occasione, di quando ancora studente borsista, mi trovai a fare da interprete per una contrattazione commerciale tra un produttore di gioielli di Vicenza e un’importante manager di una catena di negozi in Giappone. I gioielli erano bellissimi e così la fattura. La cliente giapponese ne era ammaliata, pur tuttavia la contrattazione non procedeva. Interpretando l’indecisione, e lo so che un interprete non dovrebbe intromettersi, capì che la cliente giapponese lamentava con la sua assistente la presenza nel campionario di pezzi unici e la mancanza di parure. Così riportai quell’informazione al gioielliere che, fece sapere alla potenziale cliente che la sua produzione era in grado di fornire anche parure complete oltre a ciò che stava vedendo. Da parte mia la rassicurai che il produttore avrebbe mantenuto quanto promesso. Così il contratto commerciale andò a buon fine. Mi creda che quell’imprenditore mi invitò a divenire il suo responsabile commerciale per l’ufficio che avrebbe aperto di lì a poco in Giappone. Cultura e intenzioni, opportunità e occasioni spesso si disperdono perché si perde tempo nel
parlarsi senza capirsi. I nostri imprenditori delle piccole medie aziende hanno certo difficoltà a creare grandi uffici commerciali: sarebbe più indicato avere dei desk di area ai quali le azienda possano rivolgersi per necessità temporanee, senza dovere sostenere il costo di una figura interna o di un ufficio dedicato. Ecco, noi come Dipartimento universitario, abbiamo contatti con le camere di Commercio Italiane all’estero di Tokyo di Shanghai, con l’ICE di Pechino dove spesso abbiamo i nostri stageur che sviluppano esperienze pratiche sulla base di quanto appreso durante i corsi. Credo di aver risposto alla sua domanda raccontando questi esempi in cui l’intangibilità della cultura si traduce in risultati economici e politici ben concreti.
Ecco in relazione dunque a questa già maturata consapevolezza, in che modo vi relazionate con le imprese? Anche con la connessione obbligata dai bandi europei?
In questo ambito c’è ancora molto da lavorare: quando proponiamo alle imprese di collaborare a progetti europei spesso non troviamo risposte positive perché forse non riusciamo a presentare in maniera convincente il contributo che potremmo fornire in una collaborazione con il mondo dell’impresa. È da sviluppare un rapporto di fiducia, necessario per lavorare insieme e accumulare esperienze pregresse per avvicinare le imprese all’università. In realtà molti studenti svolgono stage presso le aziende e numerosi nostri ex studenti ora ricoprano cariche importanti in grandi aziende dislocate in Asia. A livello di singole risorse umane esiste perciò un rapporto, e le aziende sanno talvolta utilizzare le nostre risorse umane, ma va stimolato un rapporto tra università e aziende che veda questi due attori come partner di progetti. Ho da poco avuto un incontro con l’associazione degli Alumni di Ca’ Foscari per approfondire le potenzialità di sinergie tra il nostro Dipartimento e il sistema degli ex studenti del nostro Ateneo che è dislocato in diversi paesi all’estero e raggruppa molti “cafoscarini” che lavorano con diversi ruoli in aziende con le quali si possono sviluppare collaborazioni di sistema. Anche attraverso queste relazioni si potranno acquisire nuovi suggerimenti per definire nuovi percorsi universitari vicini alle future esigenze del mercato. In linea con questo pensiero partirà il prossimo anno il corso in Thailandese, unico in Italia, e di Vietnamita realizzato in convenzione con l’Università di Hanoi. Sappiamo oramai che le produzioni si stanno trasferendo dalla Cina a questi paesi che stanno ricoprendo così un nuovo ruolo nel mondo.
Si può dire che i vostri studenti siano già interpreti del futuro possedendo la conoscenza di queste culture emergenti?
Facciamo il possibile perché gli studenti affrontino con gli strumenti necessari un’insieme di fenomeni in continua evoluzione [ interviene il prof Andreini], anche se la difficoltà maggiore che incontrano è quella di non sentirsi, una volta all’estero, parte di una “squadra”: un po’, immagino, come accade per molte imprese italiane, che incontrano grandi difficoltà perché manca il necessario supporto istituzionale e politico. A proposito di “fare squadra”, ho più volte invitato i miei studenti a leggersi un vecchio articolo di Gramellini, che prendeva spunto dall’iniziativa di un consistente gruppo di giovani cinesi che decise di tradurre un numero ridotto di pagine a testa di non ricordo quale volume della saga di Herry Potter: ebbene, in poche ore, la traduzione completa dell’opera era disponibile sulla rete! Al di là delle considerazioni di carattere giuridico e legale dell’operazione, il giornalista esaltava la capacità di “fare squadra” da parte dei giovani cinesi, perché si tratta di una qualità che sicuramente contribuirebbe a esaltare maggiormente le già notevoli qualità di alcuni nostri studenti. Essi sono già predisposti per cogliere le nuove tendenze del costume, dell’arte e della cultura popolare di alcuni paesi dell’Estremo Oriente, in particolare del Giappone della Corea. Sono proprio certi elementi della cultura popolare di alcuni paesi asiatici a essere divenuti, in tempi recenti, gli elementi che meglio contraddistinguono nell’immaginario comune quelle stesse nazioni (si pensi al fenomeno dei Manga). Tutto ciò, ovviamente, presenta anche risvolti economici e commerciali ingenti e, dunque, il ruolo che i nostri studenti potranno avere e in parte già svolgono di fruitori, interpreti, “diffusori” di certe pratiche condiziona il modo in cui queste tendenze vengono da noi assimilate. Ovviamente, i nostri studenti operano anche in senso inverso, ovvero promuovendo il marchio italiano all’estero, adattandolo alle diverse realtà culturali e di mercato: per esempio, un nostro ex-studente laureatosi presso la sede cafoscarina di Treviso è ora responsabile in Estremo Oriente della Barilla.
Un’ultima domanda per le nostre imprese che esportano in Asia o che ci stanno pensando: come interpretate che il mercato cinese vuole cose innovative e non al 100% cinesi o al 100% italiane?
Avendo trascorso un lungo periodo in Cina, di recente, ho potuto constatare come risulti “vincente” l’accostamento di attitudini diverse – alimentari, culturali, musicali, nell’abbigliamento – proprio per andare incontro a una naturale tendenza alla contaminazione che sembra prevalere a livello generale. Ciò, ovviamente, produce esiti ancora più interessanti se si accompagna alla promozione della qualità dei prodotti, che possono contaminarsi secondo modalità nuove per andare incontro alle richieste di clienti che necessitano qualcosa di “esotico” ma opportunamente addomesticato secondo precise esigenze culturali. Ad esempio, ho potuto notare come alcune celebri marche di pasta italiana vendano, in Cina, gli spaghetti assieme alla confezione di sugo, cosa che in Italia risulterebbe forse poco invitante. Il mercato esige la novità perché quando la ricerca va avanti, spesso si sovvertono gli stereotipi. Anche i falsi piacciono, perché reinterpretano i brand italiani inventandosi nuove soluzioni. Ecco la ragione, dunque, dell’Italian sounding, che fa sì che in Cina, ad esempio, abbondino marche finte italiane, che non incarnano certo le massime espressioni del Made in Italy, ma occupano comunque una fetta consistente di mercato.