Dominick Salvatore in occasione dell ‘assemblea generale di Unindustria Treviso. Ne parliamo con Alessandro Minello docente a Cà Foscari.

Nel numero 05/2015 di Economia della Marca Trevigiana abbiamo il piacere d’intervistare il dott. Alessandro Minello docente di Economia e Sistemi d’Impresa all’Università Cà Foscari, Venezia, Dipartimento di Management.

L’intervista è stata realizzata via Skype

A cura di Silvia Trevisan

Gentile professore Minello, può aiutarci a definire i punti cardine dell’intervento dell’economista Dominick Salvatore in occasione dell’assemblea Generale di Unindustria Treviso?

Durante l’assemblea Generale di Unindustria Treviso l’economista Dominick Salvatore ha affermato che gli imprenditori “sono degli eroi”. Non lo ha certo detto per prendersi un applauso, ma perché é convinto che il fare impresa oggi, a livello nazionale e, a maggior ragione, sul mercato internazionale, sia un compito difficile e che questa difficoltà aumenti man mano che va crescendo la complessità del sistema competitivo. Questo avviene soprattutto con l’incremento dei problemi legati ad un ambiente poco favorevole all’impresa, come lo é l’Italia.

In sostanza Dominick Salvatore sosteneva che dev’essere considerato il sistema in cui la stessa impresa é inserita. Un sistema fatto da comportamenti, regole e normative. L’economista sostiene che a Treviso gli imprenditori siano degli eroi perché le imprese del “sistema Treviso” si confrontano con un “sistema mondo” in cui gli apparati legislativi risultano molto più favorevoli all’impresa per normative e comportamenti. É come se le nostre imprese fossero zavorrate. In tal senso ha portato alcuni dati dell’ “Easy Doing Business” che certificano come l’Italia, in base ad alcuni indicatori di sistema, si trovi al di sotto di tutti i paesi europei ed anche di quelli avanzati. Faccio qualche esempio:

L’indicatore relativo alla “Facilità con cui si fa impresa” classifica l’Italia al 56mo posto su 180 paesi, ciò significa che siamo al di sotto di tutti i paesi dell’UE28 e della maggioranza dei grandi paesi del mondo. Nell’indicatore “Facilità di avviare un’impresa” l’Italia é al 46mo posto. “Avere dei permessi per costruire delle nuove strutture produttive“, coerenti con la qualità degli insediamenti, indica che l’Italia é al 106mo posto su 180 paesi. L’indicatore “Avere energia elettrica competitiva” posiziona l’Italia al 102mo posto, mentre “Ottenere credito dal Sistema bancario“, vede il nostro paese all’89mo posto. All’indicatore “Far rispettare contratti siglati” l’Italia é al 147mo posto sempre su 180 paesi.

Potrei continuare, ma in sostanza Dominick Salvatore vuole farci presente che le imprese del nostro Paese e dunque anche quelle di Treviso, che sono inserite nel contesto nazionale, per quanto riguarda la normativa, godono di uno svantaggio competitivo. Questo svantaggio competitivo è dato dal fatto che devono lavorare in un ambiente in cui le regole non facilitano l’attività d’impresa rispetto a tutti gli altri paesi con cui l’Italia si confronta.
Questi dati ci indicono che l’Italia é il fanalino di coda in molte aree e che il sistema non competitivo va a penalizzare l’impresa quand’anche fosse competitiva.

Il secondo messaggio é che spesso non esistono regole certe e la negoziazione, intesa come accordo e rispetto delle regole, è invece necessaria non solo per la competitività ma anche, talune volte, per la sopravvivenza dell’impresa. La cosa peggiore per l’impresa è, infatti, l’incertezza. Più il contesto é incerto, più l’impresa fa fatica a muoversi rinunciando ad investire. Chiunque di noi si trovi in una fase d’incertezza non può far altro che attendere, cercare di capire, ma il problema è che nel frattempo gli altri vanno avanti.

Il rispetto delle regole con le parti sociali e con lo Stato é fondamentale per il dinamismo e per la sopravvivenza dell’impresa.
L’impresa deve essere certa che verrà rispetta la regola per esempio, della gestione degli scioperi, piuttosto che quella del credito d’imposta sugli investimenti, oppure della decontribuzione, o della defiscalizzazione degli oneri, ecc.. In caso contrario le imprese si troveranno in grave difficoltà perché dovranno far fronte ai loro impegni con risorse che non sanno se verranno restituite.

Dominick Salvatore faceva l’esempio degli Stati Uniti, ma anche del nostro Paese, in cui c’è una conflittualità derivante dal mancato rispetto delle regole del rapporto tra pubblico e privato. Questo crea un ambiente ancora più incerto, nell’ambito di una complessità già palese per l’impresa.

Il terzo tema che Dominick Salvatore sottolineava, riguardava la produttività. Oggi, puntualizzava, è importante che non solo l’impresa sia produttiva, ma che lo sia anche il sistema.
La produttività é un risultato che per gli economisti dipende da due grandi fattori: uno é il capitale che si utilizza nell’impresa e l’altro é il lavoro.
Ci sarebbe poi il ruolo dell’innovazione, che però nell’intervento è stato tralasciato.
Dominick Salvatore diceva che la situazione è ideale quando le produttività di questi due fattori si eguagliano.
Infatti, se io ho tanta produttività di un fattore e bassa produttività dell’altro l’effetto non é massimo.
Per fare un esempio: se io ho tanti lavoratori e pochi macchinari non produco bene, altrettanto se io ho tanti macchinari e poco personale.
Il concetto che ha espresso Dominick Salvatore é che in alcuni periodi si é spinto troppo sulla leva dell’occupazione e ciò ha abbassato troppo la produttività del lavoro, mentre in altri periodi si é spinto troppo sul capitale e si è avuta una medesima ricaduta negativa sulla sua produttività.
Dominick Salvatore diceva che é necessario un riequilibrio tra la dotazione di capitale umano, quindi lavoro e la dotazione di capitale fisico, quindi di strumenti e macchinari.
Dove non c’è questo equilibrio la produttività ed il valore aggiunto si abbassano o crescono meno di quanto potrebbero.

Sempre in tema di produttività di un lavoratore, va sottolineato il ruolo indispensabile dell’istruzione e della conoscenza: un lavoratore preparato é migliore di un lavoratore generico.
Inoltre, se un lavoratore ha un livello alto di istruzione, apprende meglio alcuni concetti rispetto ad un lavoratore con un grado di istruzione molto basso.
In Italia il tasso di laureati è il 34% mentre in Australia, Danimarca e Giappone supera il 60%. In Finlandia, Regno Unito e Norvegia siamo sempre sopra il 40%. La media europea é il 42%, mentre la media OCSE é al 50%. Questo significa che abbiamo un capitale umano vicino alla metà di quello degli altri paesi e questo impatta sulla produttività del lavoro perché la conoscenza e l’istruzione sono alla base della capacità delle persone di dialogare con le nuove tecnologie e sviluppare competenze trasversali.
Molti pensano che non ci sia correlazione tra tasso di occupazione e di istruzione, invece si osserva come i laureati e i diplomati in Italia abbiano un tasso di occupazione attorno al 60-65%, a conferma che l’istruzione é importante, anche se tale tasso é inferiore alla media OCSE che é intorno al 75 – 80%.

Il tasso di occupazione è più elevato all’estero perché la domanda di lavoro ad alta conoscenza è maggiore, in parte legata alle specializzazioni produttive,
in parte favorita da un sistema competitivo che valorizza la conoscenza.
E’ anche per questo che ci sono produttività più elevate, perché non c’è uno spreco di competenze, di capitale umano, che si è formato a scuola.

Poi va ancora una volta detto come nel nostro paese in questi anni si sia investito meno di altri sul tema dell’istruzione.
Per l’istruzione l’Italia, infatti, spende solo lo 0,9% del PIL, mentre il Regno Unito l’1,8%, quindi il doppio.
In America siamo al 2,8% del PIL, in Finlandia all’1,9%, in Francia all’1,4% e in Germania all’1,2%. Il gap esiste e persiste.

Abbiamo parlato delle imprese e dei nuovi capitali umani necessari per il cambiamento, ma come si pone il sistema universitario nei confronti della preparazione dei giovani?

In Italia il rapporto Università/impresa non é facile e presenta un gap di relazione sia qualitativo che quantitativo.
Nei paesi nordici da sempre c’è la collaborazione tra il sistema scolastico, il sistema d’impresa e il sistema pubblico. Questo modello viene denominato della “Tripla elica” ed ha promosso lo sviluppo di quelle aree grazie a progetti e attività di collaborazione tra tre grandi soggetti: l’accademia, cioè l’Università e a cascata gli altri istituti, lo Stato, nelle sue varie agenzie,
incluso quelle di promozione dell’innovazione e il mondo dell’ impresa. C’è stato un sistema tripartito di condivisione e promozione delle relazioni.
In Italia non si è mai realizzato appieno il modello della “tripla elica” perché, se pensiamo al Nordest, area tra le più avanzate al mondo, il modello era quello del distretto. Il distretto poggiava soprattutto sulle imprese o sulla filiera in rete nelle forme distrettuali, dove la collaborazione con l’Università o altre istituzioni era praticamente assente, salvo alcuni casi.
C’era anche una ragione culturale. L’impresa veneta, familiare del Nordest poco masticava i lessici accademici e viceversa l’Università aveva un lessico che poco si adattava all’impresa. In passato il mondo dell’Università viveva quasi da separato in casa nei confronti dell’impresa. É solo negli ultimi anni che c’e stato un grande investimento in questa relazione e oggi stiamo lavorando molto di più con le imprese, le quali si stanno avvicinando all’Università e si aprono a progetti di collaborazione, ma é una realtà recente che non é nella nostra storia, nel nostro dna. Negli Stati Uniti invece le Università sono più imprenditoriali. Ora anche in Italia, senza perdere la propria identità, si sta andando verso una Università che fa anche da incubatore e non è solo depositaria di conoscenza. Questo è un passo importante.

Ritorna il tema del sistema per cui l’impresa da sola non può far niente, ma dipende vieppiù da quel sistema che le sta sopra.
Oggi c’è una complessità geopolitica che va a condizionare la competitività dell’impresa.
Per esempio l’agroalimentare italiano ha subito effetti devastanti con l’embargo della Russia.
E così anche per altri settori, dal lusso, ai trasporti i quali stanno subendo i contraccolpi di uno scenario globale molto pericoloso e non prevedibile.

Se da un lato l’impresa deve essere efficiente, dall’altro questo non basta: l’impresa oggi deve reagire.
La resilienza tuttavia non può formarsi da sola, ma solo in collaborazione con il sistema.
Il modello individualista del Nordest soffre perché, come dice Dominick Salvatore, é vincente l’economia collaborativa, basata su nuovi valori condivisi.
L’eccessivo individualismo é contrario al sistema condiviso con la comunità e con l’ambiente che genera nuovo business.
L’Expo ci ha fatto capire l’importanza etica del cibo e apprezzare il concetto di sostenibilità, dove il valore generato cresce consumando meno, meno energia, meno territorio, meno risorse. Sempre di più dovremo produrre valore più che quantità e soprattutto produrre valore condiviso.
Con la Share economy l’impresa va a produrre valore modificando e, talvolta, togliendo prodotti dal mercato, creando valore in modo diverso, ascoltando la rete, i consumatori.
Un esempio è il caso di Dell che ha eliminato dei modelli di pc dopo aver ricevuto suggerimenti tecnici in tal senso dalla rete e creando così nuovo valore concentrandosi su altri modelli.

Gli imprenditori trevigiani sono consapevoli che sta avvenendo una trasformazione?

I nostri imprenditori ne sono consapevoli, ma non tutti riescono a reagire.
Attenzione che la consapevolezza va oltre i fatturati, che nel frattempo, per chi è rimasto sul mercato, si sono ripresi.
In questi anni si è assistito ad un cambiamento di modello produttivo, verso un’economia più smaterializzata, in cui il valore generato deriva da componenti sempre più immateriali (design, comunicazione, progettazione, brand, ecc..), la manifattura si fa sempre più digitale ed il processo di terziarizzazione dell’economia avanza rispetto al passato. Questo spiega la maggiore importanza, prima sottolineata, di avere una dotazione di capitale umano altamente specializzato.
La manifattura che diventa più digitale e l’economia che si terziarizza, richiedono più capitale umano e con nuove competenze.
Ebbene c’è un 30% di imprenditori che é pienamente cosciente di queste trasformazioni, si sta adattando e sta cambiando modello, incentivando nuove relazioni, assumendo giovani, spingendo sull’innovazione, aumentando il grado di resilienza.
Per lo più sono imprese medio-grandi e internazionalizzate. C’é poi un 40% di imprese che é nell’incertezza tipica di questa trasformazione, che va aiutato a transitare verso il nuovo sistema competitivo.
A tal proposito, il sociologo Aldo Bonomi diceva che stiamo vivendo una fase di metamorfosi, che ci troviamo “tra il non più e il non ancora”. Tradotto, non siamo più un sistema di imprese familiari e distrettuali come prima, ma non siamo ancora il territorio del domani. Un terzo di imprenditori farà molta fatica perché culturalmente è poco strutturato a gestire relazioni in un mondo complesso come quello attuale, è poco in rete ed ha una visione più locale che globale, con pochi investimenti in fattore umano e nell’innovazione. In sintesi, in questa fase di metamorfosi, diciamo che un terzo si é attrezzato e sta lavorando bene, un 40% va aiutato, mentre un 30% è più difficile che riesca a fare salto di paradigma.

A cura di Silvia Trevisan
Editor Economia Marca trevigiana
Bimestrale CCIAA Treviso